Chiacchierata con l’autore de La Partita

La partita (Mondadori 2019), libro scritto da Piero Trellini sul match tra Italia e Brasile del Mundial 1982, ha vinto il Premio Selezione Bancarella Sport 2020. Un riconoscimento importante ma allo stesso tempo per nulla sorprendente, perché l’opera di Trellini è un’opera monumentale, di quelle che meritano riletture e approfondimenti.

E per capire come nasce e si sviluppa un libro simile non c’è nulla di meglio di quattro chiacchiere direttamente con l’autore. Nato a Roma, classe 1970, Piero Trellini ha lavorato tra gli altri per La Stampa, Il Messaggero e Sky, e attualmente scrive per Il Post.

Piero Trellini, perché Italia-Brasile del 1982 meritava un romanzo?
«Perché è un romanzo. Quella partita, in realtà, possiede già una sua struttura narrativa. La sua forma drammaturgica perfetta è stata per me il primo motore. In seguito ho voluto seguire i fili che avevano condotto a questa. E il vero lavoro é iniziato lì».

La partita è un’opera monumentale. Ci racconti il lavoro che ci sta dietro?
«Il mio approccio di solito è “monumentale”. Questo non vuole dire che sia corretto o di qualità. In letteratura lunghezza non è mezza bellezza. Anzi, l’obiettivo semmai è sempre asciugare. Operazione che, per quanto il libro sia lungo, ho cercato di mettere in pratica all’interno di ciascuna unità narrativa. Sono però attratto dalle stratificazioni, dagli incroci, dalle casualità e dai grovigli. In questi si trovano sempre dei nodi. Sciogliendoli, escono fuori le storie. Il lavoro parte sempre dall’accumulo di queste. Da una tensione, forse, esasperata verso i dati, le informazioni, i giornali, le foto e qualunque documento possa essere direttamente o indirettamente connesso con la storia. Ma anche i libri, naturalmente. Dietro La partita ce ne sono almeno trecento che hanno direttamente o parzialmente a che fare con l’evento e altrettanti che non lo riguardano affatto. Da questi ultimi ho preso magari solo una riga, una data, la conferma di un luogo. Tutti dati che poi ho dovuto nuovamente verificare, ma comunque preziosi. I punti di arrivo degli altri diventano i nostri punti di partenza e questo credito va riconosciuto».

Quanti anni è durato il lavoro complessivamente?
«Se devo essere sincero, non lo so. È iniziato con un album che ho fatto nell’estate del Mundial, con i ritagli di giornale, le foto a colori di Zucchi prese dal Guerin Sportivo di Cucci, i francobolli spagnoli ufficiali, quello di Zoff realizzato da Guttuso, le figurine Panini e le moviole di Samarelli. Più avanti ho cercato le annate dei quotidiani, le diapositive e i filmati. Le sole foto sono circa tremila. In seguito sono passato alla raccolta dei documenti. Anche “burocratici”, come i diari di lavorazione dell’organizzazione dei mondiali, i progetti degli stadi, i moduli per l’accredito dei giornalisti o per i pacchetti di viaggio Mundiespaña».

«Nella fase della scrittura il montaggio è cambiato molte volte. Ho un metodo di lavoro molto “ramificato”, che ha bisogno di continue mappe, scalette, strutture, grafici. Questo mi porta a isolare ogni singola cellula, dilatarla fino alle sue estremità, renderla autonoma, per poi riprenderne l’essenza, passarla dunque all’asciugatura e al suo reinserimento organico nel corpo del libro. Tradotto in file significa produrne migliaia con una stratificata organizzazione di cartelle e sottocartelle per ogni singola micro vicenda. Quando a un certo punto ho deciso di chiudere La partita, mi sono preso qualche mese e ho messo un punto. La mia ricerca è finita lì».

Quante persone hai incontrato?
«Molte, ma non tutte quelle di cui parlo. Alcune non c’erano più ed altre avevano prodotto già libri e interviste. Tutto quello che potevano dire lo avevano detto e, giustamente, ripetuto ad ogni occasione. Su quelli che, invece, non avevano avuto i fari puntati, recuperare informazioni è stato impegnativo. Gli anni Ottanta, da questo punto di vista, sono un buco nero. Per molti giornalisti, dirigenti o fotografi non ho trovato nemmeno una citazione. Gli incontri e le interviste, quindi, si sono concentrati soprattutto su queste figure. Ad ogni modo, in generale, anche nei protagonisti non è sempre facile trovare una scintilla. Ed è normale che sia così. Loro fanno la storia e non hanno bisogno di raccontarla. All’arbitro Klein feci cinquanta domande. Fu molto paziente, rispose a tre quarti di queste in maniera quasi formale, fornendomi resoconti che non avrei mai potuto utilizzare. Ma nel quarto restante, fortunatamente, qualcosa brillò. E trovai in lui la luce che cercavo. La sua vita, d’altro canto, era stata un romanzo».

Quante notti insonni ti ha causato la scrittura di questo libro?
«Sono nottambulo. È la mia natura. Quando il silenzio si impadronisce della città per me è il momento di iniziare. Il tempo si dilata e così le mie storie».

Barcellona, 5 luglio 1982: Italia-Brasile 3-2

Cosa rispondi a chi ti dice «Sì, bella Italia-Brasile del 1982, ma Italia-Germania del 1970 è stata un’altra cosa»?
«Che è così. Ed è giusto che lo sia. A ciascuno il suo. Non esiste una realtà assoluta. Esiste quella percepita dai nostri occhi durante gli istanti di un presente. E questo, quando si fa passato, a volte diventa intoccabile. Italia-Germania 4-3 non è la mia partita solo per motivi generazionali e lo sarebbe stata se il 1970 non fosse stato il mio anno di nascita. Ma in ogni caso, naturalmente, non può avere valore solo quello che viviamo, altrimenti non dovremmo considerare mostri sacri Igor Stravinskij, Benny Goodman, Claude Monet, Jean Renoir, James Stewart, Gustave Flaubert e Jimi Hendrix».

«Dal punto di vista strutturale, i tempi regolamentari a confronto diventano Bergman contro Spielberg (con tutto che parteggio per i tempi morti e i film lenti). Ma non conta nulla. Sono bastati quei supplementari per fare entrare la partita di Città del Messico nel mito. Per semplificare, possiamo quindi dire che i novanta minuti di Barcellona possono essere equivalenti ai trenta dell’Atzeca. In comune hanno l’altalena e il numero dei gol. Il risultato, in quest’ottica, è il medesimo: tre a due. Come mondiale, invece, credo che quello del 1982 non possa temere confronti. E questo vale anche per la nazionale. Battere di fila Argentina, Brasile e Germania ai tempi regolamentari, con reti segnate esclusivamente su azione, non capiterà mai più. Non solo all’Italia, ma ormai a nessun’altra squadra. La favola di Bearzot e Rossi, poi, è di una tale perfezione che sembra uscita da un libro. Non riesco a trovarne un’altra della medesima intensità».

Di quel mondiale, di quella vittoria, di quei giocatori e di quel CT, secondo te se ne è parlato troppo in questi 40 anni o se ne è parlato troppo poco?
«Ho avuto l’impressione, forse sbagliata, che se ne fosse parlato sempre allo stesso modo, con le identiche parole e i medesimi aneddoti. La storia di quei giorni del 1982 possedeva una sua complessità ed altri punti di bellezza che mi sembrava fossero stati accantonati. Da questo punto di vista il libro La partita è una selezione soggettiva di eventi oggettivi».

Di quella squadra azzurra, chi era l’idolo di Piero Trellini, e perché?
«Sono cresciuto senza idoli. Ma certamente Bearzot è stato un riferimento. Per i suoi valori. Tutti gli altri, però, erano, come recita la canzone, figli suoi. Pertanto hanno la sua impronta. A partire da Zoff. La sua immagine e il suo esempio mi hanno sempre accompagnato in tutti questi anni».

Dopo una simile faticaccia letteraria, Italia-Brasile la ami più di prima, o ti viene il mal di pancia solo a rivedere un highlights?
«Sono legami ancestrali. Se, cambiando canale, incappi nel quindicesimo round del primo Rocky é difficile non indugiare. Tendi a vederlo fino a quando i due pugili si dicono «Non ci sarà rivincita», «E chi la vuole». E partono i fiati di Bill Conti».

Il tuo libro ha tutta l’aria di essere quella che si definisce “l’opera della vita”. Cosa si prova quando questa è conclusa e viene data alle stampe?
«Non lo è. È una delle storie che avevo in testa, tutto qui. La sensazione é quella di aver liberato spazio nel cervello. Con la stampa e l’uscita, in realtà, è poi iniziata, come accade in genere ai libri, la vera vita de La partita. Ho passato sei mesi in giro per l’Italia incontrando tante persone, ognuna di queste mi ha detto o scritto cose meravigliose. Ricevo ogni giorno tante mail. La sera mi riservo un’ora per rispondere ai lettori e lo faccio con grande piacere».

A Italia-Brasile hai dedicato un racconto di 600 pagine. E se invece ti chiedessimo di raccontarla in una frase?
«Mi bastano cinque numeri: 5, 12, 25, 68 e 74». (I minuti in cui furono segnate le reti di Italia-Brasile 3-2, ndr).


Per leggere la recensione de La partita clicca qui.


Titolo: La Partita
Autore: Piero Trellini
Anno: 2019
Editore: Mondadori
Pagine: 624

1 commento

  1. Paolo Dazzi in 30/01/2021 il 1:47 pm

    Un libro che non avrei programmato di leggere.
    Un libro su una sola partita sembrava banale e poi di 600 pagine era quasi un tabù
    Comprate diverse copie come Panathlon Club Carrara e Massa già ideatore del Premio Bancarella Sport …ho provato con curiosità a sfogliarlo e leggerne le prime righe…da Il calcio è una metafora….
    E subito ne sono rimasto stregato….ed ho cominciato ad assaporarlo a piccoli ..”morsi”.
    Conto di gustarmelo piano piano ..mi affascinano e mi incuriosiscono i vari riferimenti e contesti storici.
    Per il momento mi fermo…sono alla Presistoria de ” I dossier,..

    Ci risentiremo poi
    Paolo Dazzi



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