Un secolo e più di ostacoli superati dalle donne di sport

L’agile libro di Federico Greco, socio della Società Italiana di Storia dello Sport (SISS), ha il pregio di essere a metà strada fra lo studio scientifico e la divulgazione: del primo ha la serietà d’impostazione e la cura delle fonti, del secondo il tono e la scelta di non dedicare più di qualche pagina al singolo personaggio o alla singola vicenda. Con le recenti Olimpiadi di Tokyo ancora negli occhi, possiamo dunque sfogliare queste 180 pagine per capire meglio come alcuni fenomeni che sono sembrati “nuovi” sono in realtà di lungo termine, o al contrario perché siano stati effettivamente rivoluzionari.

Esclusioni olimpiche.

Le Olimpiadi, dal punto di vista delle discriminazioni di genere (i «cinque cerchi di separazione» del titolo), iniziarono subito male, con la netta opposizione del barone De Coubertin alla partecipazione del gentil sesso. Per decenni le discipline femminili accettate nel programma olimpico (estivo e invernale) rimasero assai poche, con esclusioni interne agli stessi sport. Si tratta ovviamente di un processo storico, non di un fenomeno “naturale”: se anche alle Olimpiadi i ginnasti competono nella sbarra e le ginnaste nella trave, ciò è anche frutto di un preciso percorso di normazione da parte delle federazioni, avvenuto fra anni Venti e Trenta (pp. 53-54). L’altra faccia della medaglia è l’esistenza di sport di fatto ancora women-only, come la ginnastica ritmica e il nuoto sincronizzato, nonostante i coraggiosi recenti tentativi dello spagnolo Ruben Orihuela e del russo Aleksandr Mal’cev (pp. 67-68). Al fondo di molti pregiudizi c’è sempre stata l’idea che le donne non siano in grado di reggere certe prove o certe discipline: fino al 2017 la IAAF non permise la disputa della 50km ai Mondiali basandosi su pregiudizi come quello del presidente Sebastian Coe, il quale non riteneva credibile che le donne potessero disputare tale gara (p. 18)!

Questione di medaglie.

Fra gli insperati alleati dell’inclusione olimpica femminile va sicuramente annoverata la politica internazionale, soprattutto quella di stampo totalitario: piazzarsi bene nel medagliere complessivo era diventato un ordine categorico, e crescendo il numero delle discipline femminili, bisogna avere atlete nella propria rappresentativa nazionale capaci di portarle a casa. Lo fecero le tredici medagliate tedesche a Berlino 1936 (p. 84), e soprattutto le sovietiche e le tedesche orientali durante la Guerra Fredda, superando nettamente le statunitensi, a causa del nesso troppo stretto fra sport a stelle e strisce e sistema dei college, nel quale le discipline femminili erano «di poca tradizione o di scarso seguito» (p. 87). D’altra parte, il “vantaggio” dei paesi socialisti consisteva non solo in una più rigida programmazione statale, ma anche in una ideologia per la quale il corpo sportivo (anche quello femminile) era considerato bene pubblico: l’atleta avrebbe dovuto offrirlo all’altare della patria (pp. 89-90). Da qui al famigerato doping di stato, il passo è breve… L’analisi della mentalità collettiva locale è uno degli aspetti più interessanti di Cinque cerchi di separazione, come si vede dalle pagine dedicate allo sport femminile giapponese, oggettivamente poco conosciuto qui da noi in Italia: veramente imperdibili le storie dell’atleta Kinue Hitomi e della Nazionale di pallavolo nipponica che ispirò poi gli ideatori di Mimì Ayuhara!

Quando lo status sociale conta.

D’altra parte, però, l’autore ritorna in più punti a sottolineare un aspetto effettivamente fondamentale dal punto di vista storico, cioè quello sociale, senza il quale non capiremmo come mai i divieti non abbiano mai toccato alcune discipline. Se il pattinaggio femminile si diffuse sin dall’inizio del Novecento fu non soltanto perché aveva nel proprio DNA la “grazia” della danza, ma anche perché era praticato solo dalle figlie dell’altissima società (p. 39), così come, a inizio Novecento, lo sci, l’automobilismo e l’alpinismo (p. 58).

Uomini con(tro) donne.

Un aspetto di Tokyo 2020 che ha molto incuriosito il pubblico è stata la presenza di gare miste, le quali vanno però inserite in una cornice più ampia, quella cioè delle discipline in cui uomini e donne gareggiano assieme. Ci sono prima di tutto le discipline open, quelle cioè che, prevendo l’intermediazione di uno strumento (es. motocicletta, automobile, cavallo, barca a vela, etc.), di fatto dribblano la questione delle diverse prestazioni atletiche prodotte dal corpo maschile e dal corpo femminile (p. 26). L’obiezione “naturale” delle minori perfomances femminili mostra qualche crepa: già nei Mondiali di pattinaggio del 1902, svoltisi a Londra, i giudici trovarono fra i quattro iscritti la ventenne inglese Madge Cave Syers; in teoria il regolamento non diceva niente sul sesso degli iscritti, e i giudici dovettero faticare non poco per penalizzare la concorrente in sede di punteggio, impedendole di diventare campionessa del mondo (pp 40-41). Del resto, fra fine Ottocento e inizio Novecento i giornalisti europei «erano interessati alle prove di resistenza e il bailamme mediatico che si creava intorno ai tentativi di attraversamento della Manica ne era l’esempio più lampante. Pertanto, tutte coloro che si allenavano con costanza e vedevano nel nuoto qualcosa di più di un’attività ricreativa, avevano pochi stimoli a gareggiare tra le corsie. Molto più affascinante e appagante, per la visibilità e gli ingaggi che poteva procurare, era dedicarsi a traversate in solitaria, a sfide tête-a-tête o a maratone dell’acqua. Tutti format che permettevano alle nuotatrici di mostrare quali fossero le reali capacità fisiche delle donne attraverso un confronto diretto con le prestazioni offerte dai colleghi uomini» (p. 63).

Perché leggere Cinque cerchi di separazione di Federico Greco:

per ragionare finalmente in senso storico (e non sempre “schiacciati” sul presente) sulle sfide dello sport femminile di oggi.


Titolo: Cinque cerchi di separazione. Storie di barriere di genere infrante nello sport
Autore: Federico Greco
Editore: paginauno
Anno: 2021
Pagine: 178

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