Storie tragiche del ciclismo


«Scrivere di grandi campioni con esiti tragici richiede fegato e anche una certa sensibilità». Sono le parole che usa Luca Gregorio, giornalista di Eurosport, nella prefazione a Ruote Maledette. E non si può che dargli ragione. La scelta di Remo Gandolfi di raccontare di ciclisti che dietro una curva della vita hanno trovato un destino tragico è una scelta coraggiosa e merita grande rispetto. Cimentarsi in un simile esercizio non è affatto facile e non è da tutti.

Vite spezzate.

Gandolfi, firma di siti come calciomercato.com e rivistacontrasti.it, ha di fatto realizzato una breve antologia di ciclisti più o meno famosi e più o meno vincenti che sono scomparsi troppo presto, quando ancora pedalavano o poco dopo aver appeso la bicicletta al chiodo. Nelle 156 pagine pubblicate per Urbone Publishing l’autore ha raccolto 13 storie dal finale tragico, 13 vite spezzate, e il numero 13 sembra sia lì a sottolineare che a farla da padrone in questo libro è la sfortuna. Ci sono gli incidenti fatali che coinvolgono Fabio Casartelli, Michele Scarponi e Jean Pierre Monserè; ci sono i drammi esistenziali di Luis Ocana, Franck Vandenbroucke e “Chava” Jimenez; ci sono le morti assurde come quella di Xavier Tondo e le morti che fanno arrabbiare come quella di Joaquim Agostinho.

Un amore difettoso.

È un atto d’amore verso il ciclismo quello di Gandolfi, ma talvolta gli atti d’amore possono risultare un po’ maldestri seppur sinceri e sbocciati dal cuore. E allora, se l’intento di dedicare un libro alle ruote maledette è senz’altro un intento nobile, va anche detto che la realizzazione della pubblicazione risulta senza dubbio problematica. Tra i diversi capitoli manca un filo conduttore, un raccordo, e così si ha l’impressione di essere di fronte, più che ad un’antologia, ad un lista di tragedie un po’ scollegate tra di loro. Il difetto maggiore però riguarda lo svolgimento delle singole storie, ognuna suddivisa in tre parti: la prima dove l’autore fa parlare i protagonisti in prima persona; la seconda con la descrizione del momento fatale in cui il ciclista in questione perde la vita; la terza nella quale viene riassunta la carriera del corridore. Una formula ripetuta per tredici volte che alla lunga nella lettura risulta un po’ monotona. L’amore di Gandolfi per il ciclismo e per questi tredici sfortunati ciclisti traspare in maniera evidente – e questo è un merito – ma è altrettanto evidente come i racconti risultino un po’ tutti simili e senza quell’approfondimento che Gandolfi vorrebbe fornire senza tuttavia riuscirci appieno.

Per nulla riuscita – e qui vanno tirate le orecchie all’editore – è la pubblicazione da un punto di vista tipografico. Scelta assai discutibile dei font utilizzati, impaginazione non all’altezza di una casa editrice professionale e diversi errori di stampa pacchiani, tra righe lasciate bianche e carattere che cambia erroneamente per alcune parole. Da un punto di vista grafico si poteva – meglio, si doveva – certamente rendere onore al contenuto attraverso una maggior cura dei dettagli.

Alzarsi sui pedali.

Remo Gandolfi ha provato ad andare in fuga sul Mont Ventoux con questo libro, e forse tra lacune tipografiche e difetti di narrazione non è riuscito ad arrivare al traguardo in solitaria. Ma in fondo ciò che conta, nel ciclismo, è provarci, è alzarsi sui pedali e dare tutto quello che si ha, ed è quello che ha fatto Gandolfi, che non si è tirato indietro di fronte alla salita e ha messo il cuore in ogni parola. Proprio come Scarponi, Agostinho e Ocana, che mettevano il cuore in ogni pedalata.

Perché leggere Ruote maledette di Remo Gandolfi:

perché ci sono uomini le cui storie vanno conosciute, uomini che hanno dedicato la vita alla bicicletta e ora pedalano lassù.


Titolo:
Ruote maledette. Storie tragiche del ciclismo
Autore: Remo Gandolfi
Editore: Urbone Publishing
Anno: 2018
Pagine: 156

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