Chiacchierata con l’autore di Time Out

INTERVISTA DI ALBERTO COGHI E CARLO NECCHI

Flavio Tranquillo, giornalista di Sky Sport e telecronista di pallacanestro, ha pubblicato nel 2019 il libro intitolato Time Out, in cui cerca di ricostruire l’inchiesta giudiziaria che ha portato al fallimento della Mens Sana Basket. Nei primi anni 2000, la squadra senese si è imposta ai vertici del basket italiano ed europeo conquistando svariati trofei, alcuni dei quali revocati dopo gli sviluppi della suddetta inchiesta. Per parlare del libro in questione (e non solo) abbiamo incontrato Flavio Tranquillo, che in precedenza aveva scritto altre quattro opere: I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità (2010), Da zero a otto (2010), Altro tiro, altro giro, altro regalo (2014) e Basketball r-evolution (2016)

Time Out: come è nata l’idea di un libro del genere?
«È un’esigenza che è nata in me, personale. Non so quanti libri nascano dagli autori e quanti dalle case editrici, questo sicuramente nasce dall’autore. Le mie questioni personali sono relativamente interessanti: ho sentito l’esigenza, ho chiesto supporto ad una casa editrice e sono partito».

Che tipo di lavoro hai fatto?
«Diciamo che la mia percezione delle cose è cambiata nel tempo, e spero continuerà a cambiare: il libro è partito in una maniera, si è sviluppato in un’altra ed è approdato in un’altra ancora. Una delle idee è proprio far vedere che quello che sembra una cosa mentre avviene può essere visto in maniera più critica a distanza di tempo, non necessariamente perché stabilisci che cosa è successo ma proponendo e proponendoti qualche dimensione interpretativa in più, qualche domanda in più. Un punto di partenza è stato avere a disposizione le carte processuali, che trovavo interessanti; senza leggere quelle probabilmente non sarebbero nate tutte le altre riflessioni. Ma spero di non essermi limitato ad un copia e incolla».

Leggendo il libro sorge la domanda sull’aspetto più tecnico, sportivo di quella Mens Sana: che squadra era? C’è un giocatore che ti ha colpito di più nel ripercorrerne la storia?
«Era una squadra disciplinata, intensa, solida, cinica. Non necessariamente connotata in senso tecnico, ma aveva una sua identità di squadra. Un gruppo che arrivava più compatto degli altri a fare certe cose; dentro questa compattezza c’era anche qualche elemento legato alla situazione esterna, però c’era tanto lavoro. Nessuno potrà mai dire quanto di tutto il resto è confluito dentro il campo; qualcosa sicuramente, ma non possiamo sapere se questo qualcosa è zero o cento piuttosto che cinquanta, ed è un peccato. La squadra l’ho vista più volte, aveva delle caratteristiche e in campo batteva gli avversari. Uno degli errori che si fanno è mischiare delle chiacchiere, come la questione degli arbitri, con l’inchiesta: da un punto di vista giornalistico è un errore clamoroso. C’è un’evidenza incontrovertibile di frode fiscale, sotto forma di reo confesso, non una di frode sportiva; mischiare le cose, come viene disinvoltamente fatto, è sbagliato. Di sicuro io non sono partito per dire “gli scudetti sono stati meritati o meno”».

Negli anni in questione si è creato un grande legame tra la Mens Sana e la città di Siena, che ha portato ad un atteggiamento quasi omertoso da parte dei cittadini di fronte all’insorgere del caso. Che idea ti sei fatto di questo aspetto?
«Non direi solo omertà, c’è stata come la pretesa che fosse dovuto a Siena di avere una ricchezza superiore. Chi ha letto il libro spesso mi chiede: era proprio così? Io ribalterei la domanda: in quegli anni la città si è trovata all’interno di una tempesta perfetta in cui, nel momento del cambiamento politico-istituzionale, la Mens Sana e il Monte dei Paschi sono diventati un anello importante, e per tanti e complessi motivi hanno fatto di Siena una comunità ricca. Mi chiedo: se questa ricchezza, per così dire non richiesta, fosse arrivata nella nostra comunità, noi saremmo stati capaci di non riversare tutti i soldi nel nostro circuito perché non è fisiologico, perché non è “giusto”?».

Cosa vuole dire con questo?
«Quello che è successo non è accettabile a mio parere, ma limitarsi a scagliarsi contro Siena e i senesi non basta, forse bisognerebbe fare un ragionamento sulla nostra idea di comunità che credo sia lacunosa, per tanti motivi. Studiare questo caso ha utilità se lo riportiamo alla nostra dimensione, se ci limitiamo a dire “Siena ridacci indietro i soldi che ti sei presa in quegli anni” diventa un esercizio un po’ vacuo».

Parli anche del ruolo svolto dal giornalismo sulla vicenda Siena, soprattutto nella parte finale che si chiama “Guerra dei media”. Leggendo emergono tante domande: c’è stata faziosità, ignoranza o cos’altro?
«C’è stato questo e molto altro. Anche qui: ha senso provare a raccontare ciò che è stato se porta ad una riflessione. E’ sempre difficile affrontare questo argomento; diciamo che avrebbe più senso porsi le domande che emergono dalla ricostruzione di questa vicenda, piuttosto che mettersi a fare discorsi generali sul giornalismo. Poi spero che da questo libro non emerga l’idea “io sono un giornalista coraggioso e gli altri no”, le cose non stanno così e non è questo che ho in mente. Il punto è diverso».

Ovvero?
«Molti dicono che questo è un libro su un argomento “delicato”, o che si tratta di giornalismo “investigativo”, ma questi sono aggettivi che vengono apposti e che segnalano che in ballo ci sono questioni di un certo tipo. Ma gli argomenti non sono delicati o meno, piuttosto hanno una rilevanza di interesse pubblico oppure no. Il giornalismo non è investigativo, è cercare di conoscere e ricostruire il più possibile un argomento e, se possibile, darne una chiave di lettura. Un libro per come è fatto si presta molto più di altre forme, però i giornalisti dovrebbero esistere anche per questo: dare in forme brevi quello che si può dare in 300 pagine; questo chiaramente necessita di maggiore capacità di sintesi e di analisi».

Riguardo al caso Mens Sana?
«Quello che è successo è la somma di tantissime cose, non tutte negative o passibili di censura ma tutte passibili di un ragionamento che non si vuole fare. La parte importante delle manchevolezze è più omissiva, di abitudine, di sciatteria, che non corruttiva in senso stretto o lato. Poi il caso vuole che una parte dell’inchiesta giudiziaria ruoti attorno ad un sito di carattere giornalistico che a un certo punto, stando a quello che sostiene Minucci, viene finanziato con i soldi della Mens Sana. Però questo sito non riportava nel frontespizio “sito finanziato dalla Mens Sana”, ma basketnet. A me verrebbe facile scagliarmi contro la cosa ma non è questo il punto: è evidente che ciò è inaccettabile non solo per la Mens Sana o basketnet, ma anche per i giornalisti e i fruitori dell’informazione. Dovremmo metterci d’accordo sull’idea di un’informazione “imparziale” o “equilibrata”, perché sono aggettivi che in realtà fanno pensare il contrario. Imparziale non esiste, vorrebbe dire che se oggi do ragione a uno domani ha ragione l’altro perché bisogna fare 1-1. Io non voglio essere equilibrato: voglio provare a dire che se uno ha ragione oggi e domani anche, ha ragione due volte. Finchè questi ragionamenti non vengono fatti in maniera esplicita, ritarderemo un piccolo salto di qualità in avanti».

Il sottotitolo del libro recita Ascesa e caduta della Mens Sana o dello sport professionistico in Italia. Nel testo tu dettagli anche la vicenda Teramo e quella più recente legata a Cantù. Ciclicamente, negli ultimi 30 anni di basket italiano, una squadra di vertice vive problemi: pensiamo anche a Virtus Bologna, Treviso, Pesaro, fino alla stessa Siena. Cosa si può dire riguardo a questa situazione del basket italiano?
«Questo riguarda un altro dei territori che si cerca di attraversare nel lavoro, che possiamo chiamare business model dello sport professionistico italiano. Stando al basket, le difficoltà delle squadre citate sono diverse; il minimo comun denominatore è che il modello non è sostenibile, e per questo le realtà di quel modello tendono a fare una certa fine: poi è vero che alcune possono anche tornare più floride di com’erano, come nel caso di Milano che è ripartita da Giorgio Armani. Ma il problema è che questo non porta sviluppo; i soldi del Monte dei Paschi o di Armani hanno portato ricchezza all’interno del circuito ma non sviluppo, non una crescita del settore. Anzi, il basket italiano non offre una concorrenza reale: questo non garantisce il successo a chi è più ricco, ma è naturale che gli stimoli generali siano inferiori. Un mercato imperfettamente concorrenziale si sviluppa peggio».

Cosa intendi esattamente con crescita del settore?
«Più utili, per capirci che il guadagno totale del settore sia 110 anziché 100. Non è un concetto etereo, ma molto solido: se mettiamo 20 milioni nel basket anziché 10, e la differenza finisce nelle tasche di giocatori e allenatori, non generiamo sviluppo. E’ sviluppo nel momento in cui paghiamo il doppio o il triplo i giocatori e il settore nella sua globalità fa crescere i ricavi, e la crescita dei costi è commisurata alla crescita dei ricavi. L’esempio di successo è la Premier League, che ha accresciuto i ricavi del 150% negli ultimi 20 anni, un tasso surreale, e ha accresciuto i costi del 332%».

Nel nostro basket?
«Tutte le società mettono più soldi di quelli che guadagnano: a questo bisogna cercare una risposta che vada oltre le frasi tipo “quel proprietario è un po’ pazzo” oppure “è un mecenate”. Il ragionamento è che il nostro basket non sia un investimento, ma qualcosa d’altro. Cosa? Non lo so, dipende dai casi. Io da giornalista posso dire ciò che è successo a Siena, stando ad alcuni bilanci certificati, e proporre alcune analisi. Da operatore posso augurarmi che il mio settore crei sviluppo, perché se vale 10 il mio lavoro vale 2 mentre se vale 100 il mio lavoro vale 20. La parte giornalistica prova a spiegare quali sono le contraddizioni oggettive del settore: da giornalista posso dire che questo modello di business non sta in piedi. Se non siamo d’accordo ne discutiamo, se però ti dicono che non si può fare diversamente è una risposta non plausibile e che non accetto, perlomeno non supinamente, perché non mi sembra che porti sviluppo nel mio settore. L’altra cosa che viene detta è “spiegami tu come si fa”, ma ad ognuno il suo lavoro».
(1-continua)

PER LEGGERE LA SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA A FLAVIO TRANQUILLO CLICCA QUI.



Titolo:
 Time Out. Ascesa e caduta della Mens Sana o dello sport professionistico in Italia
Autore: Flavio Tranquillo
Editore: Add editore
Anno: 2019
Pagine: 300


Per leggere la recensione a Time Out di Flavio Tranquillo clicca qui.

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