Chiacchierata con l’autore di George Weah. Il Sole dell’Africa

Giuseppe Lombardo è iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 2016 come pubblicista. A ottobre del 2018, dopo aver collaborato con Radio Amore, per Ultra Edizioni ha curato una pubblicazione su uno dei tanti campioni di casa Milan: George Weah. Il Sole dell’Africa.

Come mai un libro su George Weah? C’è altro oltre all’inevitabile legame affettivo?
«Credo che Weah sia un personaggio estremamente affascinante. Intanto perché, come scrivo nel libro, da sportivo ha avuto il merito di accendere un faro su una guerra lontana, cui l’Occidente guardava con consueto e annoiato distacco. Poi perché, dopo i suoi trascorsi calcistici, c’è stato il salto di livello: l’impegno in politica, fino ad arrivare alla presidenza dello Stato, è un fatto assolutamente inedito, non solo per il continente africano, ma per il mondo tout court».

Che tipo di lavoro hai fatto per descrivere in maniera così particolareggiata e ricca di dettagli sia l’avventura del Weah calciatore che quella del Weah politico?
«Sotto il profilo sportivo ho incontrato meno difficoltà di altri colleghi. Weah è esploso in un’epoca in cui ogni partita era ripresa e trasmessa, un’epoca in cui il calcio è diventato ancor più platealmente uno sport di massa. Ritrovare i match, procedendo a ritroso nel tempo grazie a una memoria ancora solida, non è stato complicatissimo. Più difficile è stato rintracciare gli elementi della storia recente liberiana, anche perché – in quel paese – vige una sorta di damnatio memoriae. Ancora oggi, in Parlamento, siedono persone che sono state contigue ai signori della guerra: emissari o cruenti militari, ex miliziani che hanno oltrepassato il Rubicone per costruirsi un futuro rispettabile. Evocare vecchi e dolorosi ricordi non è un’esperienza piacevole in questi casi».

Qual è stato a tuo parere il miglior Weah? E quale l’allenatore che gli ha insegnato di più?
«Il miglior Weah è senza ombra di dubbio il talento del 1995. Quando Weah veste la maglia rossonera per la prima volta non è più un giocatore da svezzare, l’embrione di un fenomeno. È un campione fatto e finito, un talento cristallino che ha grandi doti balistiche e atletiche. L’ultima stagione col Psg non lascia adito a dubbi. Ma a quel livello Weah arriva dopo una lunga traversata: ed è ad Arsene Wenger che il pallone d’oro deve tutto. Fu lui, ai tempi del Monaco, a disciplinarlo tatticamente, a dargli le sembianze di una punta atipica, a intuire il potenziale. Senza fretta, aspettandolo, ponendolo al riparo dalle critiche. Oggi, forse, non sarebbe possibile».

Il momento calcistico a cui sei più affezionato del Weah calciatore qual è? Per quale motivo?
«Se fossi cinico direi “mi mancano le cavalcate di Weah”. Quella con l’Hellas è scolpita nella memoria della mia generazione ed è uno spartiacque: da quel momento ho imparato a distinguere i fenomeni dai giocatori. Sfortunatamente sono un inguaribile romantico e dico che mi manca lo spessore umano del professionista: la sua concentrazione prima che iniziasse una partita, le esultanze (scalmanate ed improbabili), la straordinaria mitezza fuori dal campo: tutti elementi che rivelavano una certa e pudica ritrosia ai riflettori».

Terminato di scrivere un libro del genere, con tutti gli aspetti incredibili e drammatici che si porta appresso, che sensazioni e pensieri ha l’autore?
«Le sensazioni, devo dirlo, non sono delle migliori. L’avventura politica di Weah non credo possa concludersi in maniera disneyana, con l’happy ending agognato. La Liberia è un territorio pieno di contraddizioni e la coalizione presidenziale, al momento, è unita solo perché il comandante in capo è ancora popolare. Ma giorno dopo giorno questo consenso si erode: ad ogni manifestazione delle opposizioni Weah perde qualcosa. Da quanto vedo mancano gli investimenti infrastrutturali, i promessi cambiamenti nel campo dell’istruzione tardano ad arrivare, perfino sotto il profilo sanitario – passata l’emergenza ebola – non è ancora chiaro come il Governo intenda muoversi. Le promesse elettorali sono state tante, forse troppe. Weah ha uno straordinario capitale politico che gli deriva dal fatto di essere un figlio povero della società che guida: ma di rendita non si vive. O supera i tatticismi e dà una svolta al paese, o la sua stretta cerchia di collaboratori presto lo abbandonerà. Si vince uniti, si perde da soli. Nel calcio come nella vita».

A tuo modo di vedere che ruolo ha nel 2019 la letteratura sportiva?
«L’interesse mostrato per lo storytelling sportivo è un fenomeno che mi ha coinvolto e sorpreso al tempo stesso. Esistono dei fenomeni assoluti nel genere, penso a Buffa o a Condò, che hanno dato nuova dignità al racconto sportivo, un racconto che in precedenza viveva solo sulle colonne della carta stampata. La crisi dell’editoria non ha però travolto questo campo: esistono tantissime riviste, anche digitali, in cui si parla di calcio in maniera seria, oserei dire scientifica, oltre ogni campanilismo. L’unico rischio che vedo è quello di perdere un po’ la bussola: di cercare saghe anche laddove latitano le storie, di onorare i numeri e non l’estro dello sport. Da questo punto di vista la letteratura si salva soltanto se gli autori tengono presente che il calcio è fantasia, è un guizzo, è il bambino che si innamora non solo di Cristiano Ronaldo, fenomeno assoluto, ma di Alfredo Donnarumma, bomber di periferia».


Per leggere la recensione di George Weah. Il sole dell’Africa clicca qui


Titolo: George Weah. Il sole dell’Africa
Autore: Giuseppe Lombardo
Editore: Ultra Sport
Anno: 2018
Pagine: 191

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