Chiacchierata con gli autori di Basketball Journey

Alessandro Mamoli, ex-cestista, giornalista e voce narrante del basket a stelle e strisce su Sky Sport, è stato co-autore nel 2015 di Pokerface (l’autobiografia di Marco Belinelli). Assieme a Michele Pettene, grande appassionato di pallacanestro, giornalista per L’Ultimo Uomo e scrittore del romanzo sportivo La morte è certa, la vita no (Imprimatur, 2015), è l’autore di Basketball Journey, libro oggetto della nostra intervista.

Quando avete deciso di intraprendere il viaggio?

Michele Pettene: «Il primo viaggio, quello indimenticabile nello stato dell’Indiana dedicato alla Silent Night, a Bobby Plump e a Colpo Vincente, l’abbiamo programmato nell’autunno del 2018 dopo aver trovato l’accordo con Rizzoli. I successivi verso le altre tappe che sarebbero poi diventate i capitoli del libro sono arrivati a catena, uno al mese nei successivi quattro mesi».

Alessandro Mamoli: «Quando il progetto da documentaristico si è trasformato in racconto scritto. Non amo scrivere, preferisco raccontare le storie attraverso le immagini, ma la volontà e l’esigenza di ringraziare James Naismith per quello che ci ha lasciato per come ha condizionato la mia vita e quella di tanti altri mi ha convinto a iniziare il progetto».

Quando siete partiti, avevate già in mente di scrivere un libro che raccontasse questo viaggio?

M: «Sì, soprattutto da un certo punto in poi, quando effettivamente abbiamo dovuto scrivere la lista delle tappe da toccare per proporle a Rizzoli come bozza del futuro indice del libro e quindi iniziare a prenotare viaggi, spostamenti, hotel, interviste. L’obiettivo iniziale invece, rimasto invariato, era ben presente anche prima di tutto questo, ovvero volevamo fortemente omaggiare e ringraziare il Doc James Naismith per il dono che aveva fatto al mondo e a noi, creare il gioco della Pallacanestro».

A: «Assolutamente sì, abbiamo privilegiato l’idea del viaggio, l’on the road. Raccontare ma dal posto, incontrando persone, parlando con loro, vivendo l’esperienza in prima persona. Non avremmo mai accettato di scriverlo a distanza».

In quale tappa/incontro avete provato l’emozione più grande?

M: «La risposta facile sarebbe “in tutte!” perchè veramente ogni singolo viaggio è stato memorabile, ma se dovessi scegliere la mia Top 3 direi: Washington DC, per come sono stato accolto dalla comunità afroamericana che organizza la Goodman League, la lega estiva dove è cresciuto Kevin Durant; Springfield, per lo stupore e la genuina emozione di entrare a contatto con la pronipote di Naismith; e l’Indiana, decisamente la tappa più divertente tra i siparietti con Bobby Plump e la Silent Nigh».

A: «Silent Night, sia perché è stata la prima nostra tappa sia perché si tratta di un’esperienza davvero unica e surreale. Appena sotto metto la rivalità Duke UNC e l’aver visto dal vivo per la prima volta una partita tra queste due università che rappresentano la rivalità più forte del College Basket».

C’è una tra le storie che avete raccontato che sentite più “vostra”? Per quale motivo?

M: «Sicuramente Washington DC per tutte le connotazioni sociali legate alla black community, mentre scrivere della nascita e dell’evoluzione del film Hoosiers – Colpo Vincente mi ha dato l’opportunità di attingere a piene mani all’altra mia enorme passione – il cinema – deviando per un attimo dalla pallacanestro».

A: «Non ce ne è una in particolare, forse scoprire la Silent Night e raccontarla in un certo modo agli appassionati italiani la mette una spanna sopra le altre. Emotivamente mi ha coinvolto tantissimo raccontare la storia del liceo di Oscar Robertson».

Come nasce la vostra amicizia?

M: «Ci presentò ormai dieci anni fa Paola Ellisse di Sky, credo una sorella maggiore per entrambi, e poi siamo pure finiti a giocare insieme per un paio di stagioni nelle minors milanesi, di fatto approfondendo un rapporto che, ovviamente, ora e dopo questo libro è diventato ancora più solido, nonostante i 13 anni di differenza che Mamo dice non si vedono minimamente (se sia un complimento o meno lo devo ancora capire!)».

A: «Per caso, ma ci fu subito un buon feeling. Nonostante siamo molto diversi abbiamo un atteggiamento ed un rispetto nei confronti della Pallacanestro molto simile e Miky ha grande talento nello scrivere».

Il vostro viaggio prevedeva altre tappe? Ne avete in programma un altro simile?

M: «Più che altre tappe – a cercare ce ne sarebbero un’infinità – a me sarebbe piaciuto molto approfondire tutte quelle storie collaterali a quella principale di ogni capitolo che per ovvi motivi di tempo e spazio abbiamo relegato nelle note, fondamentali se si vuole avere un’idea completa dei nostri viaggi».

A: «In origine il libro doveva terminare a Lawrence, dove è seppellito Naismith ma la vittoria dei Toronto Raptors ci ha portato a scegliere un secondo epilogo. Una squadra canadese che vince per la prima volta il titolo NBA nello sport inventato da un canadese ci sembrava la perfetta chiusura del cerchio. La struttura di Basketball Journey prevede che ci possano essere altri libri, ma non dipende solo da noi ovviamente».

Cosa per voi rende affascinante il basket collegiale?

M: «La genuinità, la passione incredibile e sempre corretta del tifo e il fatto che i tifosi siano per la maggior parte degli studenti universitari, unite alla quantità inesauribile di storie, tradizioni e leggende che ammantano il mondo del college basketball da sempre e che ogni ateneo ci tiene a tenere vive, un’eredità che trasforma molte partite in eventi epici. Poi, le arene delle università sono di per sé dei monumenti fantastici, antichi e leggendari, camminarci dentro nel silenzio più totale e gli spalti vuoti è una delle sensazioni più mozzafiato che abbia provato viaggiando per il libro».

A: «Il senso di appartenenza, l’atmosfera che si respira alle loro partite, soprattutto quando si gioca nel campus. L’idea che ci possano essere 15-20 mila spettatori ad una partita di ragazzi nemmeno ventenni. La rivalità, la tradizione. Tutto».

Avete un vostro personale “eroe” del college basketball? O una Top 3?

M: «Certamente… a livello personale mi è impossibile non iniziare con Allen Iverson a Georgetown tra il ’94 e il ’96, una sorta di piccolo miracolo dopo le vicende legate all’incarcerazione di AI al liceo; poi mi è sempre rimasto impresso il piccolo Gerry McNamara a Syracuse, un classico eroe del college che non avrebbe mai potuto giocare in Nba e anche per questo ancora più amato; e infine Gordon Hayward di Butler University, vero simbolo dello stato dell’Indiana e dell’Hoosier Hysteria».

A: «Jimmer Fredette. Il modo in cui quarantelleggiava e cinquantelleggiava al College mi faceva impazzire. Ma la mia storia preferita resta la vittoria di North Carolina State del 1983».

C’è un libro a tema sportivo che vi è capitato di leggere e che vi è rimasto in mente?

M: «Tanti, tantissimi…ma rimanendo su un testo che mi ha aiutato a scrivere il libro posso dire che l’autobiografia di Wilt Chamberlain del ’73 è una delle chicche più fenomenali che mi siano mai capitate in mano, a partire dal titolo già di culto: Just Like Any Other 7. Foot Black Millionaire Who Lives Next Door».

A: diversi ma ne scelgo due, entrambi scritti da John Feinstein. Last Dance che racconta dietro le quinte di storiche Final Four e Let me tell you a story, che raccoglie le storie più incredibili vissute da Red Auerbach.


Per leggere la recensione di Basketball journey, clicca qui.



Titolo:
 Basketball journey
Autore: Alessandro Mamoli e Michele Pettene
Editore: Rizzoli
Anno: 2019
Pagine: 313

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