Chiacchierata con l’autore di C’era una volta l’Est

Roberto Brambilla, grande appassionato della Germania e del calcio tedesco, è alla sua prima fatica letteraria con C’era una volta l’Est edito nel 2016 in formato Ebook da Edizioni InContropiede ed arricchito nella sua edizione cartacea nel 2019.

Come mai un libro sul calcio in Germania dell’Est?
«Il libro è nato idealmente nel 2014, quando per Olio di Canfora, programma sportivo di Radio Popolare avevo raccontato alcune storie di sport dalla Germania Est in occasione dei 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Mi sono divertito parecchio e qualche amico-collega mi aveva stuzzicato, chiedendomi perché non le scrivessi quelle storie. Qualche mese dopo, con un po’ più di tempo a disposizione, ho cominciato a pensarci seriamente con l’aiuto di Lorenzo Longhi, amico e collega. Più o meno così è nata l’idea. La scelta del tema invece è legata a più motivi: prima di tutto adoro il calcio tedesco, in italiano si era scritto poco sul tema e soprattutto mi piaceva confrontarmi con un mondo, quello calcistico della DDR, di cui, tolti alcuni eventi e personaggi, si conosceva poco».

A tuo parere qual è il momento più importante della storia pallonara della DDR e perché?
«Secondo me più che un momento è un anno, o meglio un biennio, quello che va tra il 1974 e il 1976. In quel periodo la Germania Est va per la prima volta a un Mondiale, battendo anche i cugini dell’Ovest nel girone, vince per la prima e unica volta un trofeo internazionale per club, la Coppa della Coppe nel 1974 con il Magdeburgo e due anni dopo conquista l’oro olimpico. Né prima, né dopo la Germania, unita o divisa ha mai portato a casa il titolo a cinque cerchi nel calcio. Quel periodo è stato il più importante perché una serie di fattori si sono incrociati, tra cui un’eccezionale generazione di talenti e ottimi tecnici, dando vita a un momento in cui le squadre della DDR potevano giocarsela con le migliori».

Thom, Ducke, Croy, Sammer, Kirsten e tanti altri: chi è stato il miglior giocatore della Germania dell’Est?
«È una scelta difficile, anche perché sono ruoli ed epoche diverse. Sammer e Kirsten, per l’epoca che hanno vissuto sono valutabili, anche fuori dal contesto della Germania Est, visto che hanno giocato e lasciato il segno in Bundesliga e non solo. Per loro parlano trofei e numeri. Se parliamo in termini di classe “pura” Peter Ducke è stato forse il più grande. Tecnica, un buon fisico, fantasia e la capacità, quando non subiva infortuni di essere decisivo. Sui portieri Croy era una spanna sopra gli altri. Come Streich, che il gol li faceva e non li evitava, era uno di quelli che all’Ovest un posto in Nazionale se lo sarebbe potuto giocare. Vedendo i suoi video ricorda come stile Dino Zoff, con la caratteristica che fosse capace di giocare con i piedi come un calciatore di movimento, cosa poco comune all’epoca».

La storia a cui sei più affezionato e perché?
«Ne scelgo due, anche se sarebbero molte di più. La prima è la storia di Reinhard Lauck, il mediano della Germania del 1974, morto tra le ristrettezze alla fine degli Anni Novanta. L’ho scoperta quasi per caso, cercando un taglio differente per raccontare lo scontro tra le due Germanie ai Mondiali ’74 e dentro ci ho trovato un esempio perfetto di come il calciatore sia prima di tutto un uomo, soprattutto quando appende le scarpe al chiodo. La seconda è la storia di Souleymane Cherif, calciatore della Guinea, Pallone d’Oro africano nel 1972 che ha vissuto alcuni anni nella Germania Est, giocando a calcio nella seconda divisione, ma mai esordendo in Oberliga, perché nella massima serie gli stranieri erano banditi. La sua presenza nei campionati della DDR precede di più di dieci anni quella del primo nero in Bundesliga».

Magdeburgo-Milan o la finale delle Olimpiadi del 1976? Quale delle due partite è stata il coronamento trionfale di un calcio a molti poco noto?
«Credo che lo siano tutti e due per fattori diversi. La vittoria del Magdeburgo è il trionfo di una outsider, senza grande tradizione, che grazie a un paziente lavoro di costruzione è arrivata a vincere un trofeo continentale dove squadre con potenziale maggiore avevano sempre fallito. L’oro del 1976 è stata l’ultima grande recita di un gruppo di calciatori, che erano passati per il Mondiale e che stava entrando in fase discendenti. A livello di risultati la vittoria a Montreal 1976 è stato il punto più alto, anche se i tedeschi dell’Est come tutte le nazioni del Blocco Orientale schieravano, a differenza dei Paesi dell’Ovest, i loro giocatori di prima divisione, dato che alle Olimpiadi erano ammessi atleti dilettanti. E loro di diritto (ma non di fatto) lo erano».

Cosa ti ha colpito nel lavoro di approfondimento che hai svolto su un calcio che ormai non esiste più?
«Mi ha colpito scoprire che la sostanza è molto diversa e più ricca dell’immagine che si ha di questo tema. Studiando, leggendo, documentandomi anche in lingua originale, si va molto oltre ai luoghi comuni sul doping e sull’ingerenza dello Stato nel calcio (fenomeni che esistevano in maniera massiccia e di cui ho parlato). Ho trovato belle storie di sport e anche di vita».

Perché, secondo te, nel 2019 vale la pena leggere libri di argomento sportivo?
«La ragione principale per cui vale la pena di leggere di sport nel 2019 è perché lo sport, se raccontato bene, spiega la società e il mondo, a volte meglio di un’analisi sociologica».


Per leggere la recensione a C’era una volta l’Est di Roberto Brambilla, clicca qui.


Titolo: C’era una volta l’Est. Storie di calcio dalla Germania orientale
Autore: Roberto Brambilla
Editore: Edizioni InContropiede
Anno: 2019
Pagine: 319 

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