Chiacchierata con l’autore di Nato per non correre


Salvo Anzaldi, classe 1969, è giornalista dal 1989. Ha scritto per diverse testate locali e nazionali e ha lavorato a lungo nell’ambito della comunicazione istituzionale. Gran lettore, va pazzo per Bruce Springsteen e l’Inter. Nel 2005 ha vinto il rinomato Premio Saint-Vincent di Giornalismo con un reportage sulle vacanze valdostane di Papa Giovanni Paolo II. In passato ha pubblicato due libri-inchiesta (Fuori dal Comune e Idil, la perfetta), mentre Nato per non correre (2019, CasaSirio Editore) è il suo primo “romanzo”, sebbene autobiografico visto che racconta la sua avventura alla maratona di New York e, soprattutto, la sua vita da emofilico, ovvero da persona affetta da emofilia, malattia dovuta alla carenza nel sangue di quel fattore che ne permette la coagulazione e per colpa della quale anche la caduta più banale può causare emorragie, forti dolori e problemi di movimento.

Anzaldi, il suo libro parla, innanzitutto, di una malattia, l’emofilia, ma anche di come questa sia stata da lei e dai suoi compagni di “avventura” affrontata e, per certi versi, sfidata attraverso uno sport: la corsa. Perché allora, nel libro, dice che il suo non è un libro di sport?
«Perché è innanzitutto un romanzo di formazione. Tanto che CasaSirio Editore l’ha inserito nella collana “Sciamani”, quella che racconta storie capaci di andare dalla rivincita sul proprio destino a prove di coraggio e amore. La mia formazione passa in modo decisivo attraverso lo sport, da quello che seguo con passione viscerale fin da bambino a quello che ho sublimato correndo con successo la maratona più famosa del mondo. Lo sport rappresenta però “solo” una delle pietre angolari di una formazione che si alimenta con altrettanta avidità di musica e scrittura».

Riuscirebbe a spiegare come le ha cambiato la vita quella domanda che le hanno posto e da cui, fondamentalmente, prende avvio il libro («Te la senti di allenarti per la maratona di New York?»)?
«In modo sostanziale, mi ha permesso di fare una cosa ritenuta impossibile da tutti e da me in primis: preparare la Maratona di New York, correrla fino in fondo e… sopravvivere. Battuta a parte, mi ha donato fiducia e una consapevolezza del mio corpo che non avevo avuto nei miei primi 45 anni di vita. Un esempio? Sette giorni fa sono salito sul Monte Chaberton, 3131 metri d’altezza dopo oltre 1300 metri di dislivello: cinque anni fa, per me sarebbe stato fattibile tanto quanto una passeggiata su Marte».

La cosa che colpisce, nelle pagine del libro, è la normalità con cui racconta la sua malattia e, soprattutto, il modo in cui cerca di “normalizzare” la visione di essa in chi non la conosceva. Pensa che lo sport, da questo punto di vista, possa essere un mezzo utile?
«Assolutamente sì. Lo sport è un maestro eccezionale che impartisce quotidiane lezioni di vita. Che tu sia praticante, semplice appassionato o tifoso sfegatato, il risultato del campo ti dice cose fondamentali che, se hai la pazienza e la capacità di ascoltare, diventano doni preziosi nella vita di tutti i giorni. Seguire i miei campioni preferiti mi è stato di grosso aiuto anche nella preparazione della maratona: nei momenti di difficoltà ho visto e rivisto una meravigliosa intervista ad Alex Zanardi, a più riprese sono andato a rileggere passaggi di autobiografie come Open di André Agassi (qui la nostra recensione), Giocare da uomo di Javier Zanetti (qui la nostra recensione) e True di Mike Tyson (qui la nostra recensione). Chi, nel corso della sua vita, non si è mai trovato a terra o chiuso in un angolo? Rialzarsi e ripartire di slancio rimane sempre una possibilità, guai a dimenticarlo».

Spesso, nella retorica anche giornalistica, si usa il gergo sportivo per raccontare la battaglia contro la malattia. Lei, che con una malattia convive ogni giorno e che proprio “grazie” a essa si è avvicinato a uno sport, crede che ci sia, effettivamente, una correlazione tra questi due mondi?
«Molti fanno correttamente notare che “vincere la battaglia” suona irrispettoso nei confronti di chi invece non ce l’ha fatta, non per colpa sua ma semplicemente perché il nemico era troppo forte. Io penso che la cosa più importante sia sempre quella di sensibilizzare verso temi importanti come la prevenzione e la ricerca scientifica. Certo, la retorica abbonda ed è talvolta accompagnata da un’approssimazione pericolosa, ma uscite pubbliche come quelle di Gianluca Vialli o, più di recente, Sinisa Mihajlovic risultano utili perché diventano d’esempio e d’aiuto per moltissime persone».

Ha dichiarato, sia nel libro che in successive interviste, di aver continuato a correre anche dopo l’esperienza della maratona. Allo stesso tempo, nel libro racconta però di come ha abbandonato l’altro suo grande amore sportivo, il calcio. Davvero non è più sceso in campo?
«Confermo. L’ultima partita l’ho giocata a Sanremo l’1 giugno 2001. Ho appeso le scarpe al chiodo a 32 anni, proprio come Pancev, Kluivert e Boniek. Tuttavia, da allora, il mio sogno notturno più ricorrente è stato proprio quello di giocare a calcio. L’ho fatto per molti anni e ho smesso, guarda un po’, quando ho cominciato a correre».

Cosa le è rimasto di quella maratona? E cosa spera, invece, che sia rimasto alle persone che hanno letto il suo libro?
«Mi è rimasta più di ogni cosa la bellezza di quella giornata, con New York totalmente consegnata alla sua Maratona. Il sostegno incessante del pubblico, la musica lungo il percorso, la magia del Queensborough al chilometro 24 con migliaia di piedi a sbattere fuori sincrono sopra l’East River. Una festa meravigliosa, inaspettata e, in fondo, meno massacrante del previsto. A chi ha letto il libro spero invece di aver trasmesso un esempio di volontà e tenacia che, nel caso dei bambini emofilici e dei loro genitori, significa non lasciarsi mai andare a quello che il destino sembra aver loro riservato. Andare oltre si può».

Lei è, prima che scrittore, un giornalista. Le chiedo allora cosa ne pensa della letteratura sportiva in Italia. L’impressione è che, rispetto ad altri Paesi, ci siano ancora molti mondi narrativi da esplorare nel settore…
«Quasi tutta l’epica del pallone è in effetti di matrice sudamericana: Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano li abbiamo praticamente mandati a memoria, anche se io sono letteralmente impazzito per La vita è un pallone rotondo di Vladimir Dimitrijevic. Mi è piaciuto tantissimo anche Il minuto di silenzio di Gigi Garanzini e, tra quelli usciti quest’anno, Il suo nome è Fausto Coppi di Maurizio Crosetti (qui la nostra recensione). Certo, è un filone che finora abbiamo sfruttato assai meno di quanto avremmo potuto».

Ultima domanda, stavolta da tifoso interista e piemontese: pensa che Conte, ex simbolo della Juve, possa fare grandi cose da allenatore dell’Inter?
«Il calcio attuale è molto diverso da quello della mia infanzia, che racconto nel libro. L’Inter sta lavorando con serietà per rientrare in quell’élite mondiale che la storia le assegna. Da questo punto di vista, mi sembra che Suning stia facendo un ottimo lavoro. Per pura scaramanzia, non dico nulla sulla stagione appena avviata, sono però molto felice dell’arrivo di Diego Godin, da anni uno dei miei calciatori preferiti».


Per leggere la recensione di Nato per non correre clicca qui.


Titolo: Nato per non correre
Autore: Salvo Anzaldi
Editore: CasaSirio
Anno: 2019
Pagine: 288

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